“C’è ancora domani” per non parlare degli incassi del film

Sara C. Santoriello
5 min readDec 29, 2023

“C’è ancora domani” supera al Box Office i preannunciati capolavori di incassi Barbie e Oppenheimer, ma questo film non va commentato meramente a partire da quanto guadagna [SPOILER ALERT].

Una scena del film “C’è ancora domani” ritrae Delia (Paola Cortellesi) e Marcella (Romana Maggiora Vergano)

Su “C’è ancora domani” rischio di dire delle banalità, però il racconto genuflesso sugli incassi di un’opera audiovisiva mi sa di monco. I riflettori accesi sulla violenza di genere in Italia hanno attraversato varie fasi lungo tutto il 2023 e il passaparola sul film è a tutti gli effetti un atto politico che ha portato quasi 5mln di spettatorə nelle sale e giova all’industria cinematografica quanto a un rinnovato interesse per le sorti della parità in Italia. Un’opera prima da regista che ha infiammato il Festival del Cinema di Roma per poi ricevere una pioggia di premi, donando nuova luce alle professioniste del cinema nell’audiovisivo, come da anni si propone Mujeres nel Cinema.

Il neorealismo di Paola Cortellesi non sta nel bianco e nero. D’altronde, parte di Oppenheimer è in bianco e nero. Il neorealismo della regista sta nel recupero del racconto di cortile, entrando nelle case e nelle storie della povera gente dove l’analfabetismo dell’affettività è soltanto una delle conseguenze dell’assenza di istruzione. Dove l’autodeterminazione del proprio voto, che nessuna donna normale aveva immaginato di poter pretendere, arriva insieme alla tessera elettorale. Dove l’apprensione di una madre diventa più potente delle bombe. Delia non è una eroina e non lo sarà in nessun momento della sua vita, neanche quando si immola per risparmiare le legnate alla figlia Marcella. Non poteva esserlo perché non lo sono state le nostre nonne, educate a tacere. Non avrebbe potuto in nessun caso esserlo perché a quel tempo una donna sola era una donna persa assoggettata a un riscatto economico. Non sarebbe stata capace di uccidere il marito per mille ragioni, tra cui il pensiero del torto causato ai suoi figli. Se Cortellesi avesse peccato in questo senso, avrebbe realizzato un racconto di fantasia, infedele alla storia. Delia è una donna normale che abbiamo incontrato tuttə almeno una volta, fragile e sottomessa, parente di sangue o vicina di casa. Il suo superpotere è nel consegnare a un’urna la possibilità di futuro.

Il film di Paola Cortellesi affronta con semplicità il tema del gender gap negli ambienti dell’artigianato. Delia non comprende come mai un neoassunto con scarse competenze meriti una paga più alta. «È omo, no?» — e la domanda retorica oggi ci disturba perché si insinua in un periodo in cui rimbomba l’eco del merito a tutti i costi come se fosse un livellatore di competenze. In primis, la “femminilizzazione del lavoro” divenuta insostenibile anche per gli uomini, a riprova che patriarcato batte capitale (lo dico per chiudere il cerchio su discussioni aperte un decennio fa con alcuni marxisti); il mancato riconoscimento delle pratiche di cura che male si incastrano con la precarizzazione a vario titolo, comportando un accavallamento degli impieghi (Newyorker chiude l’anno con una copertina di Bianca Bagnarelli dal titolo “Deadline”, in cui compare — che casualità — una donna), con le lavoratrici spesso considerate come “naturalmente” multitasking; l’essere genitore che pesa gravemente sulla madre, costretta a dover porre sulla bilancia l’aspirazione e l’accudimento.

Oltre a essere un bel film, costruito bene, con una colonna sonora potente che recupera pezzi della cultura popolare italiana, che mette in scena la violenza con l’espediente della danza, “C’è ancora domani” vuole parlare a chiunque, senza erigersi a opera intellettuale, concettuale, esoterica. Mostra in maniera didascalica le dinamiche familiari che hanno attraversato almeno due generazioni in Italia, parlando a un pubblico che ha visto in altre storie sullo schermo (si veda “L’amica geniale”) il susseguirsi di privazioni e fasi di depressione sottaciuta, nascosta e incompresa. Anticipato di qualche mese da Barbie, che fa sua un’opera di decostruzione della bambola inanimata, dove l’orgoglio rosa (diverso dal pinkwashing) culmina nel desiderio di riappropriazione di sé (Barbie sceglie di restare tra gli esseri umani e fa visita al reparto di ginecologia) e di ciò che è stato sempre deciso dagli altri («I want to be part of the people — to make meaning — not the thing that’s made. I want to do the imagining — I don’t want to be the idea. Does that make sense?»). È arrivato poco dopo la morte di Michela Murgia, che durante tutto l’arco della sua carriera da scrittrice ha affrontato il tema dei diritti (alle sue parole si ispirò Paolo Virzì per realizzare il film “Tutta la vita davanti”), proponendo come curioso epilogo un’intervista rilasciata al Corriere della Sera in cui il tratto più dirompente, oltre al racconto della malattia, è l’alternativa di famiglia queer basata sull’amore del prossimo piuttosto che sulla forma, interrompendo il discorso antico sull’amore romantico delle aspettative dicotomiche. Soprattutto, Cortellesi ha mostrato la malvagità a cui non sfugge neanche il bravo ragazzo (nel film un convincente Francesco Centorame, già volto di SKAM Italia) quando tenta di controllare il destino della sua partner, ritrovandosi nelle sale tragicamente in concomitanza con la vicenda di Giulia Cecchettin, alla quale un intero Paese ha assistito inerme prima di accorrere in piazza, quantificato in mezzo milione soltanto a Roma, il 25 novembre.

Che dire, invece, del mancato #metoo della comunicazione nel campo pubblicitario a giugno e nel giornalismo a settembre. I casi che hanno riguardato la condizione delle lavoratrici, il trattamento loro riservato dai colleghi, gli screenshot delle chat in cui veniva commentato senza ritegno l’abbigliamento e le forme, così come le avances non richieste, sono stati prova di quello che già sappiamo di molti ambienti in cui si resta “signorina” a vita, senza scatti di carriera e riconoscimenti. Un atteggiamento corporativo, degradante, predatorio nel privare un soggetto della dignità umana, oltre che professionale, spesso a sua insaputa. È una battaglia che si deve affrontare a partire dagli ambienti in cui si genera la rappresentazione, che è tutto fuorché astratta. Lo vediamo da come viene raccontata la violenza di genere sui quotidiani, dalle direzioni editoriali a prevalenza maschile, che tanta responsabilità hanno nella scelta delle parole e delle immagini associate al femminicidio.

Questo film aveva dalla sua parte vari elementi per piacermi. Nelle mie scelte di vita ho associato le sorti della mia condizione femminile alla politica e ho consolidato con mia madre il rituale del giorno delle elezioni, in cui ci passiamo i bigliettini con i nomi prima di entrare nel seggio perché riteniamo che da quelle preferenze passino le nostre aspettative di cambiamento. Mi dispiace che se ne parli meramente in termini di incasso perché credo che abbia aperto un varco spazio-temporale nell’immaginario, molto più potente di un biglietto. “C’è ancora domani” ci ha ricordato che siamo ancora in tempo e quella speranza improvvisa ci ha spiazzato e commosso.

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Sara C. Santoriello

📣 Keen on Social in Media 📰 Journalist ♀️Feminist🎙️Music and Politics 👉 @_sasaprova e t.me/sainacosa